Vita di Maometto (pbsdl) di al-Tabari curata da S.Noja

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Vita di Maometto
Vita di Maometto
Al-Tabari è uno storico persiano della metà del IX secolo che ha scritto in arabo, lingua egemone dell’epoca, una grande “Storia degli inviati (di Dio) e dei Re”. Nella sua storia racconta le varie fasi della vita del Profeta, dalla sua chiamata al monte Hirà alla rivelazione che scorre nel Corano e poi, via via, l’égira a Medina, le prime spedizioni e la conclusione della sua vita terrena. Le battaglie di Badr e di Uhud, avvenute in sperdute località di un’Arabia grande come l’India e che hanno sempre costituito punti di riferimento fondamentali nella cultura di ogni musulmano, compaiono e rivivono in questa storia con lo stesso pathos che ritroviamo nei racconti a noi più noti delle battaglie di Salamina e delle Termopili.

Description

Vita di Maometto (pbsdl) Copertina flessibile – 6 mar 2002
 
Questa biografia del profeta Muhammad (pbsdl), curata e tradotta da ORIENTALISTI, è la traduzione condotta sulla versione francese a cura di M. Hermann Zotemberg della seconda metà dell’800.
Al-Tabari è uno storico persiano della metà del IX secolo che ha scritto in arabo, lingua egemone dell’epoca, una grande “Storia degli inviati (di Dio) e dei Re”. Nella sua storia racconta le varie fasi della vita del Profeta, dalla sua chiamata al monte Hirà alla rivelazione che scorre nel Corano e poi, via via, l’égira a Medina, le prime spedizioni e la conclusione della sua vita terrena. Le battaglie di Badr e di Uhud, avvenute in sperdute località di un’Arabia grande come l’India e che hanno sempre costituito punti di riferimento fondamentali nella cultura di ogni musulmano, compaiono e rivivono in questa storia con lo stesso pathos che ritroviamo nei racconti a noi più noti delle battaglie di Salamina e delle Termopili.

 

ESTRATTO DELL’OPERA

INTRODUZIONE

Con molta irriverenza ho spesso immaginato il Tàbari, a me caro perché interlocutore nei miei studi per tanti anni — si fa per dire, con il millennio che ci distanzia —, seduto a gambe incrociate fra cataste di vecchi volumi, fischiettare serenamente. In fondo non è detto che chi ha molto studiato debba vivere e studiare senza allegria e non è detto che chi studi cose grandi e sublimi non possa farlo fischiettando. Ma ben al di là di questa personalissima visione di «come» il Tàbari studiasse, non è difficile descrivere «che cosa» studiava e «che cosa» scrisse. Dell’Islàm, allora in piena fioritura, studiò tutto e dedicò la vita a costruire con pazienza — ma nel Corano è scritto «Iddio è con i pazienti» — pagina per pagina, riga per riga, si può dire parola per parola, le due grandi opere che ogni musulmano lega al nome Tàbari. Un monumentale «Commento» al Corano e una non meno monumentale «Storia», che possono anche essere visti come un’unica grande cornice alla «parola di Dio» che è il Corano stesso. Se non ci si vuole abbandonare a fantasie, bisogna almeno tentare di costruire l’autore come un identikit dalla lettura dell’opera. A me è apparso lentamente, libro dopo libro, come un uomo non ricco di abissi e di sottofondi dell’anima — tutto il contrario del mistico che cerca di avvicinarsi a Dio per identificarsi in Lui — ma come un uomo sereno che pensava di svolgere, quasi senza chiedersi il perché, il compito che si era prefisso e che, secondo la sua fede semplice, era quanto Iddio gli chiedeva. Per renderci conto di come un fedele di una religione possa inserirsi tra i Grandi di essa senza eccellere nelle pratiche che noi consideriamo religiose, è necessaria una precisazione: l’Islàm, a cui apparteneva il nostro autore, è religione di legge. È sufficiente per la salvezza un minimo di atti legali prescritti per tutti dalla «legge» che, secondo l’antica definizione della giurisprudenza data da Ulpiano, divinarum ac humanarum rerum tutto comprende. E, parlando a questo proposito, Bausani, che da decenni illustra l’Islàm dalla sua cattedra romana, poco tempo fa ebbe occasione di precisare: «Secondo una nota tradizione, un tale si avvicinò al Profeta e gli chiese: “Se io compio la preghiera canonica, pago la decima, eseguo il digiuno del ramadân e tutti gli altri atti legali e non aggiungo altro, entrerò in Paradiso?”. Muhammad — Egli ama chiamare nell’originale Muhammad il Profeta dell’Islàm — rispose semplicemente: “Sì”. La risposta cristiana sarebbe stata forse diversa e molti cristiani taccerebbero certo la risposta di Muhammad di fariseismo da Antico Testamento. Ma non vanno dimenticate due cose. Una è che la legge è obbligatoria ed egualitariamente valida per tutti; l’altra è che chiunque può liberamente aggiungervi, senza rinnegarla, atti supererogatori che formano, per esempio, un’immensa mistica (il poeta mistico musulmano del XIII secolo, Jalâluddîn Rûmî, è stato chiamato da qualche orientalista europeo il più grande mistico di tutti i tempi), una teologia, una gnosi, ecc. Solo che tali atti e credenze vanno considerati supererogatori, non unica via regia (come nel Cristianesimo) per raggiungere la salvezza. L’unica o quasi unica persona che sia stata uccisa in Islàm per eresia fu al-Hallâj, il grande e commovente mistico semi-cristiano di Baghdad del X secolo (crocifisso nel 922), il cui delitto fu non quello di aver detto frasi eretiche o panteiste (proposizioni ancor più estremiste delle sue furono formulate da altri mistici, pur lasciati in pace, nella lunga storia dell’Islàm), bensì quello di aver sostenuto — più o meno esplicitamente — che solo attraverso quelle sue teorie e pratiche mistiche si poteva ottenere la salvezza, contrariando così un punto fondamentale di legge, quello di non imporre agli uomini pesi più gravi di quelli che Dio ha scelto di imporre loro (basato su passi come Cor. II, 286 e altri)». Si può pertanto vivere da «grande» nell’Islàm, aggiungo io, solo approfondendo la Legge col suo studio, non aumentando lo «spessore» della partecipazione ad essa. Ma, quando si parla di studio della Legge, bisogna essere chiari nell’intendere tutto, ovviamente partendo dall’inimitabile Corano, attraverso la vita del Profeta dell’Islàm, i suoi «detti e fatti», la cui imitatio è sempre Legge, fino ai dettagli minuti (se si possono o no uccidere i pidocchi nel territorio della Mecca) o ai vari problemi giuridici (i termini esatti di una vendita). Fu così che negli anni l’amico Tàbari si delineò ai miei occhi, lo dicevo poc’anzi, come un uomo tranquillo. I suoi pensieri a illustrazione della Legge nascevano da una vita che volontariamente aveva cercato di tenere lontano dalle cariche pubbliche, che pure gli venivano offerte con regolarità proprio per la sua grande conoscenza della Legge e delle sue quattro fonti, quali si erano improvvisamente chiarite in quel miracoloso sviluppo giuridico dell’Islàm nascente che, in meno di cento anni, riusciva ad impostare il suo sistema. Mentre conquistava il mondo, l’Islàm costruiva la «scienza del diritto» (in arabo fiqh) — diritto sempre visto come «religione» — e gli dava la sua peculiare forma: procedeva e procede (perché tutto da allora è rimasto così) dal Libro di Dio. Essa si ispira, o meglio copia, i «detti e i fatti» del Profeta dell’Islàm, noti col nome generico di ḥadīṯ o «racconti» (più che «tradizione»), e si piega al più umano compromesso costituito dal «ragionamento analogico» e dal Consensus populi. E il Tàbari fece le sue scelte con determinazione, anche quando gli costarono ingiurie o addirittura accuse di eresia, rompendo con i seguaci della «scuola» di Aḥmad Ibn Ḥambal. Egli riconobbe questo «grande» dell’Islàm come autorità in materia di ḥadīṯ, ma — certo sarebbe bello attardarsi sulla sola distinzione tra questi due aspetti: «cosa imitare» e il «diritto» — non di fiqh. In realtà le divisioni feroci, che a noi possono apparire incredibili, ruotavano per esempio intorno all’interpretazione da dare al versetto 81 della sura XVII: «E dì: Signor mio fammi entrare di un’entrata felice e fammi uscire di un’uscita felice e accordami, da parte Tua, un potere che mi assista!». Si narra infatti che dovette starsene barricato in casa per difendersi dai seguaci di Ibn Ḥambal che si affollavano intorno alla sua casa e che fu lasciato in pace solo quando venne emessa un’ordinanza di polizia che gli assicurava la sua protezione. Egli fondò una scuola i cui seguaci chiamarono chiamarono Ğarīriyyah — ovviamente dal suo nome Ğarīr — che, scostandosi di poco da quella Šāfi‘ita — la grande «scuola» che fa perno sull’Egitto — della quale era un pollone, sopravvisse per un tempo relativamente breve. Su queste finezze — noi siamo obbligati a considerarle tali — posso anche non dilungarmi, ma devo segnalare che le differenze tra le «scuole», dette anche «riti», si riducono a ben poco; e che le scuole — in realtà si dovrebbero chiamare «sistemi giuridici» (in arabo maḏhab, «via», «direzione», in senso tecnico: scuola o sistema di diritto) —, cosiddette «ortodosse», sono solo quattro. Il che già fa comprendere che le differenze tra di loro non possono essere sostanziali. Ogni musulmano deve appartenere ad una di esse, seguirne i precetti, con la libertà di passare da una all’altra, ma in toto, non per un singolo precetto. Quello che ritengo l’aspetto più interessante per noi, figli del nostro tempo, è che il Tàbari, padrone dell’arabo e nato tra i non-arabi, non sentì, come molte volte capita a chi entra in un nuovo mondo, la necessità di tagliare i ponti col proprio passato persiano — era nato nel Tabaristàn in Persia — ma al passato dei suoi antenati e dei loro dinasti volle unire il mondo degli Arabi nella sua «Storia». Come dicevo, musulmano sicuro della sua fede, non aveva trascurato le storie dei «suoi» antenati, i grandi personaggi della «sua» Persia, rigettandone la sola religione legata agli elementi della natura. Fu così che entrò nella storia, o nella letteratura che dir si voglia, non per le opere che, come sappiamo, scrisse di diritto o di recitazione del Corano, ma per ciò che aveva poco più che trascritto.[…]

CAPITOLO II

L’infanzia del Profeta Gli abitanti più importanti della Mecca avevano l’abitudine di dare i propri figli a balia fuori città, perché crescessero lontani dall’aria della città che è orribile specialmente d’estate. Nelle montagne del deserto e dello Higiàz,21 a due giorni di cammino dalla Mecca, abitavano degli arabi molto poveri ma di stirpe antichissima, i Banū-Sa‘d, Sa‘d era figlio di Bakr, figlio di Hawazin, figlio di Manṣūr.22 Ogni anno in primavera, costoro venivano alla Mecca a prendere i lattanti che venivano loro affidati, li allevavano fino a che erano grandi e li riportavano ai genitori; nel loro paese e respirandone l’aria, i bambini crescevano forti e imparavano a parlare bene l’arabo: la lingua dei Banū Sa‘d è infatti la più pura di tutta l’Arabia. Il nostro Profeta non mancò di dire: «Sono l’uomo più eloquente d’Arabia e di Persia: sono nato coreiscita e sono stato allevato tra i Banū Sa‘d». ‘Abd al-Muṭṭalib attese dunque che venissero le donne dei Banū Sa‘d per affidar loro Maometto. Mancavano tuttavia ancora quattro mesi al loro arrivo. Presso di lui stava una balia, Masrūḥ, che aveva allattato i suoi figli e che stava per partorire. ‘Abd al-Muṭṭalib affidò il Profeta a quella donna perché lo nutrisse durante quei quattro mesi. Giunsero infine le balie dei Banū Sa‘d alla Mecca, con figli e mariti, per prendere i lattanti. Quell’anno la tribù dei Banū Sa‘d versava in grande miseria, essendo mancato il fieno, e le donne vennero in numero maggiore del solito. C’era tra loro una certa Ḣalīmah, figlia di Abū Ḏu‘ayb, detto ‘Abdallāh, figlio di al-Ḥāriṯ. Suo marito si chiamava Ḥāriṯ, figlio di ‘Abd al-‘Uzzā, figlio di Rifā‘ah, ed era anch’egli dei Banū Sa‘d. Questa famiglia, composta dal marito e dalla moglie, da un figlio e due figlie, era molto […]

 

 

MUHAMMAD IBN ĜARĪR AL-TABARĪ (839-923) è stato uno storico, giurista ed esegeta coranico tra i più importanti del mondo musulmano. Le sue opere principali sono un vasto commento al Corano e la Storia degli Inviati (di Dio) e dei Re, un compendio della storia dell’uomo dalla creazione al 915.

SERGIO NOJA (1931-2008) è stato uno dei più insigni arabisti. Autore di diversi saggi sul mondo arabo e l’islam, ha insegnato Diritto musulmano all’Università di Torino e Lingua e letteratura araba all’Università Cattolica di Milano.

 

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